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Monfalcone gasata

Ovvero come si rischia di mancare un’opportunità per chiudere con la dipendenza dai combustibili fossili e avviare un passaggio verso le energie rinnovabili

Entrando a Monfalcone si nota il camino della centrale a carbone, a righe bianche e rosse che fuma in mezzo alle industrie. Una centrale a carbone nata negli anni ’60 del secolo scorso, che si era ingrandita nel tempo e via, via integrata con una parte ad olio combustibile ( poi dismessa grazie a normative europee) con un Aia in scadenza al 2025. L’attuale proprietà, A2a, è la più grande multiutility pubblica italiana, fa capo ai comuni di Milano e Brescia, e si occupa di rifiuti, inceneritori, ed energia. L’A2a ha presentato una richiesta, a dicembre 2019, di Valutazione di Impatto Ambientale ai ministeri competenti per utilizzare l’area bonificata, della parte ad olio combustibile dell’impianto di Monfalcone, insediando una centrale a gas nel golfo di Panzano. La fornitura del gas verrebbe garantita dalla rete Snam. La vetusta parte a carbone rimarrebbe in loco, pronta per l’”emergenza”. La società ha facoltà, grazie alla ex provincia di Gorizia che aveva concesso, di produrre il 10% di energia con rifiuti certificati (oli, carcasse di animali infetti e altro).

Passa l’opinione, anche tra i compagni che più si occupano delle questioni ambientali, che la trasformazione della centrale a carbone di Monfalcone in centrale a gas sia un salto di qualità per ambiente e cittadinanza. Il passaggio dal carbone al gas prevede sicuramente un salto di qualità: dagli attuali 350 MW a carbone si prevedono 850 MW a gas, estensibili a 1.100 MW. L’ azienda stessa, A2a, parla di un pareggio di emissioni fra il futuro a gas e l’attuale a carbone, mettendo in conto forse l’utilizzo di tecnologie che permetterebbero la cattura di una parte delle emissioni, ad oggi tutte da verificare. Di certo, una centrale a gas da oltre 1 giga di potenza installata non può essere considerato a impatto zero. Oltre a questo, insediare ora una centrale a gas significa vincolare tutto il golfo di Trieste e il suo intrinseco valore, alla dipendenza dai combustibili fossili per almeno altri 50 anni, e il territorio alle sue emissioni dirette e indirette derivate non solo dalla combustione ma anche dalle perdite e fuoriuscite di metano, un gas climalterante dall’impatto ben più grave della CO2.

Incommentabile la posizione dei sindacati confederali, sostenitori a spada tratta della centrale a gas che a regime offrirà 35 posti di lavoro. Sindacati che si nascondono dietro una manciata di pelosi, posti di lavoro per sostenere un potentato economico come l’A2a che farà strame di un preziosissimo territorio fronte mare, dalle notevoli potenzialità.

Ne abbiamo parlato lo scorso novembre al Caffè Esperanto in un incontro intitolato “Gas e transizione energetica: impatti e interessi nel contesto della crisi climatica. Un’assemblea/dibattito sulla transizione della centrale da carbone a gas a Monfalcone” a cui ha partecipato anche Elena Gerebizza, del collettivo Re:Common, che dal 2012 fa inchieste e campagne contro la corruzione e la devastazione dei territori, in solidarietà con le comunità direttamente coinvolte.

Nello scambio di quella assemblea è emerso che il superamento dell’uso a fini energetici del carbone è all’ordine del giorno in tutta Europa. La questione ha una importanza non solo dal punto di vista energetico ma concerne l’intera economia, la ridefinizione delle relazioni di potere in essere e in divenire.

A partire dal 2006 ci viene raccontato in modo sempre più insistente che il gas avrà un ruolo centrale nella transizione verso un’economia a ridotte emissioni di CO2. A sostenere questa posizione sono principalmente le aziende del settore (come Eni e Snam, per restare in casa ) il settore finanziario e chi nelle istituzioni gli ha sempre fatto da sponda. Questa narrazione ha trovato terreno fertile, più o meno consapevolmente, non solo nella società civile ma perfino nell’ambientalismo militante. La propaganda attecchisce e dire che il gas è un passaggio obbligato per la transazione dal carbone verso le energie pulite sembra sensato, invece è una bestialità: il gas inquina in tutto il suo percorso, dall’estrazione alla combustione. Il gas è un fossile e con i fossili non esiste il meno peggio. Non è un caso che lo sforzo orchestrato dall’industria per creare questa narrazione abbia coinvolto esperti, società di consulenza, e la stessa accademia, oltre che miliardi in finanziamenti pubblici a sostegno del settore a livello globale (pensiamo all’espansione dello sfruttamento del gas di scisto negli Stati Uniti).

Questa narrazione tossica va contrastata. Come emerge dall’inchiesta “Di chi sono i gasdotti” i suoi principali sostenitori sono tutte società a controllo pubblico, ma gestite come società private, che hanno interessi e profitti economici enormi. Snam (Italia), Enagás (Spagna), Fluxys (Belgio), GRTgaz (Francia) sono i maggiori trasportatori di gas in Europa. L’italiana Snam a Monfalcone la conosciamo bene visto che è proprio questa società che qui negli anni Novanta voleva realizzare un terminal per la rigassificazione del metano da costruire tra i comuni di Monfalcone e Duino. Ora è nota anche per il gasdotto TAP (Trans Adriatic Pipeline) e la Rete Adriatica, di cui si è parlato diffusamente su Germinal 127 del maggio 2018.

Per capire il potere delle società summenzionate basti pensare che proprio nel 2018 hanno realizzato complessivamente oltre 2 miliardi di euro di utili e che, con basso profilo, sono arrivate a controllare più della metà dei terminal di gas liquido (LNG) dell’UE e oltre 100.000 km di gasdotti, e nuove infrastrutture in programma. Stiamo parlando di almeno 6.200 km di gasdotti e un nuovo terminale LNG di prossima costruzione.

Queste società sono riuscite a mettere in moto una potente macchina di pressione orientata a mantenere l’Europa dipendente dal gas. La cosa ha dei costi: solo lo scorso anno Snam e le sue sodali hanno speso fino a 900mila euro solo in attività di lobbying a Bruxelles per un totale, contando anche l’impegno profuso dai loro otto gruppi di lobby chiave, di circa 3 miliardi spesi a sostegno dell’industria e della narrazione del gas come combustibile di transizione. Secondo il registro per la trasparenza dell’UE, i signori del gas avrebbero ottenuto quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione europea per discutere i loro ultimi progetti di gasdotti o offerte di acquisizione. Queste quattro società inoltre hanno investito in un’ampia rete di gruppi di pressione a pagamento per dare priorità ai loro ordini del giorno, con Snam in un ruolo chiave.

Il principale canale di lobby per queste società è stato creato dalla stessa Unione europea. L’UE ha creato un proprio gruppo di lobby interno composto da gestori delle reti di trasmissione del gas – denominato ENTSO-G – a cui ha affidato il compito di fornire le proiezioni sulla futura domanda di gas in Europa. Proiezioni che sono state costantemente sovrastimate, secodno la solita vecchia storia del controllato che diventa controllore.

A questo gruppo l’UE chiede l’elenco dei progetti infrastrutturali necessari a soddisfare la domanda di gas prevista da sé medesimi. Dopo essere stato concordato con i governi, questo diventa l’elenco ufficiale dei “Progetti di interesse comune”, che poi verranno costruiti con il sostegno finanziario e politico dell’UE. 1,3 miliardi di euro di denaro pubblico sono già stati destinati a progetti come i gasdotti MidCat e Trans Adriatic Pipeline (TAP) e i terminali LNG di Fluxys.

Oltre all’aspetto degli interessi economici è necessario analizzare anche la questione ambientale. La sostituzione dei nuovi impianti a turbogas alle centrali a carbone ci vengono proposti da governo e società coinvolte – Enel e A2A in testa – come meno inquinanti. Il mantra che risuona è  sempre lo stesso: “il gas inquina meno del carbone”. Risuona nel dibattito vuoto e male informato e ha trovato sponda a più livelli, nonostante siano sempre più numerose le voci scientifiche che dicono l’esatto contrario.

In particolare il network di studio tedesco Energy Watch Group ha cercato di fare chiarezza sull’impatto reale di una conversione a gas di centrali termoelettriche e impianti di riscaldamento funzionanti a carbone e petrolio estendendo l’osservazione alla filiera completa del gas fossile, dall’estrazione al trasporto all’utilizzo finale.

È importante considerare anche il momento estrattivo dal momento che il gas di cui parliamo si trova in giacimenti di acque profonde o è contenuto dentro rocce di scisto. Per essere estratto necessita di procedure molto complesse che nell’insieme impattano significativamente sull’ambiente. Il gas viaggia migliaia di chilometri e nel trasporto ha un impatto esso stesso: da qualche anno infatti alcuni istituti di ricerca hanno iniziato a guardare alle emissioni e alle perdite di metano da gasdotti, navi metaniere, centrali a gas e di pressurizzazione/depressurizzazione, con risultati allarmanti. Le emissioni di metano avrebbero effetti sull’ambiente più devastanti della CO2, tanto che potremmo definirlo come un acceleratore dei cambiamenti climatici.

L’Energy Watch Group sottolinea quindi che sostituire le centrali a carbone esistenti con nuove centrali a gas porterebbe a un aumento complessivo delle emissioni di gas a effetto serra del 41% tenuto conto delle emissioni non solo di CO2, ma anche di metano. In questo conto vengono considerate le perdite di quest’ultimo che però, trasportato sia via tubo per distanze lunghe fino a 4000 chilometri che via nave, potrebbero raggiungere, secondo un’altra ricerca, una ulteriore perdita calcolabile fino al 10 % in più di emissione.

da Germinal 129 del maggio 2020

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